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GLI ACQUEDOTTI ROMANI DI SERINO

di Uberto Ing. Potenza

“un gran giorno per Napoli”

“data da segnalarsi a lettere d’oro questa del 10 maggio 1885”

”l’inaugurazione dell’acquedotto”

Questi alcuni titoli dei giornali che descrivevano l’inaugurazione dell’acquedotto napoletano: il ritorno a Napoli delle acque di Serino nel secolo scorso, così come già era avvenuto in età augustea alla fine del primo secolo avanti Cristo.

Le sorgenti di Serino, da sempre rinomate per la qualità e la gradevolezza dell’acqua fornita, sono situate nel cuore dell’Appennino Campano, sgorgando dal massiccio carbonatico del Terminio - Tuoro, nel territorio della provincia di Avellino.

Gruppi sorgentizi, distanti tra loro appena tre chilometri, furono prescelti per servire all’approvvigionamento della città di Napoli: quello superiore, che prende il nome di Acquaro e Pelosi, e sgorgava a circa 370 metri sul mare, e quello inferiore d’Urciuoli alla quota di circa 320 metri.

Lo studio idrogeologico effettuato prima di progettare le opere di allacciamento, dimostrò che le abbondantissime acque scorrono su uno strato impermeabile posizionato ad una profondità media di 12 metri sotto il livello del suolo; la vena acquifera, variabile da tre a quattro metri, è sempre costituita da sabbia, ghiaia e trovanti calcarei di diversa grandezza. Questo strato permeabilissimo, attraverso il quale filtrano le acque che, scendendo dalle lontane regioni montuose, si raccolgono qui per zampillare a fior di terra, è costantemente coperto da una crosta di tufo nero abbastanza resistente e di spessore variabile, sopra il quale si adagiano infine la terra vegetale, la ghiaia, il limo e gli altri prodotti delle successive alluvioni.

Corografia generale degli acquedotti serviti dalle sorgenti di Serino
Tavola 1 - Corografia generale degli acquedotti serviti dalle sorgenti di Serino

Queste possenti e meravigliose polle sorgentizie, situate baricentricamente rispetto agli insediamenti campani, sono state captate nel tempo per l’alimentazione di ben tre acquedotti (tavola I). Il primo di questi, in età romana, ovvero l’acquedotto augusteo, utilizzava il gruppo sorgentizio più alto detto dell’Acquaro-Pelosi, per il trasferimento delle acque verso le cittadine della piana campana, sino a Pozzuoli, Bacoli e Cuma. Il secondo, anch’esso in età romana, trasferiva le acque del gruppo sorgentizio più basso, quello denominato Urciuoli, a Beneventum, ed infine nel tardo ottocento, l’acquedotto di Serino conduceva a Napoli le acque di entrambe le sorgenti per soddisfare le sempre crescenti necessità idropotabili della città partenopea.

Questi acquedotti, come tutti gli acquedotti romani, funzionavano a “gravità”; lo schema altimetrico della tavola IIa indica un esempio generico di tali opere: il manufatto di presa (incile), il lungo canale in muratura (rivus) che trasportava le acque anche a più di cento chilometri di distanza, le gallerie scavate per perforare le montagne, i ponti-canale per attraversare le valli con ampi muri ed archi (sostruziones, arcuaziones), se del caso le condotte in piombo saldato, sino alle vasche di carico alimentanti le reti idriche cittadine (castella aquae).

Distribuzione idrica
Esempio di tubazioni in piombo per la distribuzione idrica

Esistevano anche le opere necessarie ad un corretto funzionamento e gestione come le piscine limariae (sedimentatori), i fori di aerazione per le gallerie (lumina) ed altre. (Tavola IIa).

Acquedotto
Tavola II a

Nell’agosto dell’anno 1936, durante i lavori per allacciare le sorgenti del gruppo Acquaro-Pelosi all’esistente acquedotto di Serino per la città di Napoli, venne messa alla luce una pregevole lastra in marmo cipollino, recante una scritta romana databile tra il 317 ed il 326 D. C., probabilmente risalente al 324 D.C.  

Lapide romana di Serino

Lapide romana del IV sec. d.C.
fons augustea di serino

i nostri prìncipi:

fl. costantino pio, felice e vittorioso, fl. giulio crispo e fl. claudio costantino, nobili cesari, comandarono che fosse riscostruito, a loro spese, colla munifica, consueta liberalità, l'acquedotto della fonte augustea, andato in rovina col tempo per la grande incuria, e lo restituirono all'uso delle città sottoscritte.

(questa lapide) dedica ceionio giuliano, viceconsole giurisdicente l'agro pontiniano, e preposto all'acquedotto stesso.

nomi delle città:

pozzuoli - nola - atella - napoli - cuma - acerra - baia - miseno

Tale lapide alta 190 centimetri, larga 87 e spessa 17 centimetri, testimoniava il restauro dell’acquedotto alimentato dalle sorgenti del gruppo alto a spese dell'Imperatore Antonino Pio e dei suoi figli Crispo e Costantino.

La fonte viene definita “Augustea” al pari di una epigrafe mutila rinvenuta a Pozzuoli, dedicata ad un “cura(tori) a(quae) Ag(ustae)“, rivendicando ad Augusto la realizzazione dell’opera e confermando quanto già si ipotizzava con l’esame dei resti esistenti del canale in muratura, per il trasporto delle acque, canale eseguito in reticolato, di foggia tipicamente augustea.

Lo Sgobbo che ha curato la traduzione italiana della lapide, sostiene che la successione con la quale vengono elencate le città, alimentate dall’acquedotto, dipende dal loro decrescente consumo idrico (e quindi dalla loro estensione ed importanza).

Gli studi e le ricerche fatti nel passato, su tale opera di primaria necessità per l’alimentazione idrica in Campania, sono stati soprattutto finalizzati al ripristino dell’antico acquedotto, per alimentare in primis la città napoletana, che nel tempo ha sostituito per importanza commerciale e strategica la città romana di Pozzuoli, con il conseguente aumento di popolazione, giusta ricompensa al desiderio di diventare capitale di un regno.

Il primo che ha studiato l’importante opera augustea è stato, nel XVI secolo, l’ingegnere napoletano Pietrantonio Lettieri che, per incarico del viceré spagnolo Don Pedro di Toledo, per ben quattro anni, seguì i resti e le tracce dell’antico acquedotto sino a Napoli, lasciandone accurata testimonianza.

Ancora più particolareggiato risulta lo studio dell’architetto Felice Abate che, verso la metà del 1800, con il saggio “Studi sull’acquedotto Claudio e progetto per fornire di acqua potabile la città di Napoli”, riproponeva il ripristino dell’acquedotto romano per riportare a Napoli le acque di Serino.

Tra gli altri studi è qui opportuno ricordare quelli di I. Sgobbo nel 1938 e di O. Elia nel 1978.

L’acquedotto augusteo di Serino è probabilmente databile tra gli anni 30 A.C. ed i 20 dopo la nascita di Cristo. Si ricorda che il cognato di Augusto Marco Vipsanio Agrippa viene preposto nel 33 A.C. all’ufficio di Curator Aquarum e inizia grandi ed estesi lavori per migliorare l’uso degli acquedotti romani; lo stesso edifica in Roma nuovi acquedotti: nel 33 viene portata nella capitale l’acqua Giulia con un’opera lunga 21,6 chilometri e nel 19 sempre A.C., con un acquedotto sotterraneo, giunge nella Capitale l’acqua Vergine, acquedotto attualmente funzionante per i giochi d’acqua della Fontana di Trevi.

Sono ipotizzabili analoghi lavori di ingegneria civile in Italia e nell’Impero.

L’acquedotto Augusteo viene anche edificato in un periodo nel quale vanno aumentando le già sensibili richieste idriche degli importanti porti di Pozzuoli, città comunque già servita da un altro acquedotto locale, l’Acquedotto Campano, che captava alcune sorgenti del retroterra.

Tra il capo di Posillipo e capo Miseno, tra il primo secolo avanti Cristo e la fine del secondo dopo Cristo, erano posizionati i porti più significativi del Mediterraneo: il porto commerciale di Pozzuoli, che sarà per lungo tempo il principale porto di Roma: il “portus Julius” costruito nei laghi di Lucrino (molto più ampio di oggi) e Averno; quello militare nella zona di Bacoli; vi erano anche vicini i porti di Cuma, Baiae e di Nisida e non lontano quello di Napoli.

E’ probabile anche che, durante gli anni trenta a.C., con la pacificazione dell’Impero Romano per mano di Augusto, aumentando notevolmente i traffici commerciali ed agricoli tra Roma ed i territori d’oltremare, e quindi l’importanza del porto di Pozzuoli, si decise di ampliare il vecchio porto ormai insufficiente, così creando ulteriore spazio per i moli commerciali, e scaricare il grano necessario alla città di Roma, le derrate e tutte le merci provenienti dall’Oriente. Tale ampliamento, tra l’altro permise un maggiore arrivo dei cittadini dell’Impero in Italia, secondo i canoni della “Pax Augustea” (basti ricordare che San Paolo dall’Oriente passò per Pozzuoli per andare a Roma).

Il porto nuovo costruito sotto Capo Misero e denominato “misenate”, vasto ed importante, capace di contenere la grande flotta imperiale, fu dotato di ampie sovrastrutture, di cantieri, delle abitazioni dei funzionari e dei militari, di terme, palestre e quant’altro (tavola III). Il bacino portuale conteneva anche il mar Morto ed esisteva un canale di collegamento tra le acque del golfo di Pozzuoli e quelle del canale di Procida. La zona ebbe una espansione edilizia, estesa e di pregio: di fatto si sentì la necessità di acqua potabile e per i servizi.

Tavola III
  • 1 lucullo1

    2 di pietra salata

    3 vedio pollione-aug.

    4 bruto-c.mario-giulia

    5 cicerone 1

    6 orpilio-nerone

    7 stufe di nerone

    8 pisoni-claudio

    9 g.cesare

    10 v. con cisterne

    11 tomba di agrippina

    12 100 camerelle q.ortalo

    13 v. presso il faro

    14 lucullo 2

    15 servilio vatia

    VILLE RUSTICHE
  • porti

    p1 pausilipana

    p2 nisida

    p3 iulius-pozzuoli

    p4 lacus baiae

    p5 iulius militare

    p6 cuma

    strade e grotte

    vco via per collem

    vcr via per criptam

    vc via campana

    vd via domiziana

    gs grotta di seiano

    gc grotta di cocceio

    cn cripta neapolitana

    PORTI, STRADE, GROTTE
  • serbatoi

    m piscina mirabilis

    d draconaria

    c piscina cardito

      -piscina lusciano

      -100 camerelle

    v vas. rione terra


    sa sacello degli augustali

    te teatro

    terme

    t baia

    tb bagnoli

    tc cuma

    tr via terracina

    ta agnano

    tp pozzuoli

    sn stufe di nerone

    ta terme di apollo

    cs casa degli spiriti

    SERBATOI, TERME

L’ampliamento del porto di Pozzuoli, realizzato con il lavoro di numerosi schiavi, è databile intorno al 37 A. C., nell’ultima fase della guerra tra Pompeo “Magno” ed Ottaviano e, per permettere un rifugio funzionale e dare alla flotta militare maggiore sicurezza, fu decisa la costruzione del nuovo porto speciale presso capo Miseno e Punta Pennata. Tale porto fu destinato a contenere la flotta militare romana del Mediterraneo Centro-occidentale e fu sede del suo consolato (comando generale) sotto il comando del "praefectus classis misenensis".

Anche il nuovo porto venne realizzato con la geniale opera di Vipsanio Agrippa, luogotenente di Augusto, e suo genero, certo con la collaborazione dell’architetto Cocceio. Tale opera militare, così importante e vasta, non poteva non essere dotata di acqua abbondante e di buona qualità.

Lungo tutto il litorale, tra la otiosa Neapolis, l’attiva Puteoli e capo Miseno, sorsero altre numerose e lussuose ville, numerose altresì quelle rurali e le terme. In particolare estese, ben conservate ed ultimamente restaurate sono le vestigia della splendida villa edificata su Capo Posillipo, alla Gaiola, da Vedio Pollione, nobile romano, e da lui chiamata “Pausilypana” (cessazione del dolore) (tavola IV a).

Tale villa, riccamente decorata e comprendente vasti locali, odeon, auditorium, gruppi termali, terrazze e giardini sul mare, nonché un vasto teatro capace di contenere fino a 2000 spettatori, e persino un accogliente porticciolo, fu, dallo stesso Pollione, lasciata in eredità ad Augusto che, già proconsole di tutto l’Impero dal 23 A.C., ne diventò proprietario nel 15 A. C., alla morte dell’amico.

Le acque di Serino, prima di giungere a Pozzuoli e Miseno, dopo un percorso di circa 100 chilometri, alimentavano numerose città, anche non prossime al canale di adduzione, mediante diramazioni spesso considerevoli. Si pensi a Pompei, il cui castellum aquae posizionato a Porta Vesuvio, il punto più alto della città, era rifornito mediante un canale derivato, probabilmente interrato, che proveniva da Sarno, costeggiando le pendici del Monte Somma, dopo un percorso valutabile in sei chilometri, alimentazione certo distrutta a seguito dell’eruzione del 79 d.C.

Altre città, alimentate mediante lunghe diramazioni, erano come ricordato dalla lapide Nola, Atella, Acerra, Cuma, questa con una condotta libera in muratura parallela alla grotta della pace (o grotta di Cocceio). La città di Napoli, sfiorata dal canale augusteo, aveva il castellum aquae all’altezza degli attuali quartieri spagnoli, posizionato al di fuori della murazione cittadina. Ancora oggi una della traverse di Via Pasquale Scura si chiama Via del Formale.

L’opera acquedottistica romana, superata Napoli, era dotata di una diramazione alimentante le splendide ville della collina di Posillipo, sino alla Pausilypana. Il canale, traversata la grotta per Pozzuoli, la cripta neapolitana, ove era posizionato in destra all’altezza delle reni della volta, si divideva in due rami. Il primo dei quali, passando su un mirabile ponte-canale sul mare, alimentava l’isolotto di Nisida, ove era edificata la splendida villa di M. Licinio Lucullo figlio del proprietario della Luculliana, l’altro, il principale, interrato a mezza costa sulle colline prospicienti il mare, giungeva a Pozzuoli riversando le acque, prelevate dalle sorgenti dell’avellinese, nelle numerose cisterne dagli ampli volumi. Un altro ramo di notevole importanza alimentava, come visto, la città di Cuma ed il suo porto; altra importante cittadina alimentata era la ridente e ricercata Baia, ricca di ville nobiliari ed imperiali, e così via.

Le sezioni del canale dell’acquedotto augusteo non sono certo costanti, ma dipendenti dalla natura e tipologia dei terreni attraversati (tavola IV b). Generalmente tale opera si sviluppava nei terreni collinari dell’Appennino, correndo a mezzacosta.

Numerose erano le gallerie in roccia: il traforo del monte Paterno, ad esempio, lungo 1.768 metri, era altresì dotato di numerosi cunicoli verticali ed inclinati, costruiti per l’ispezione e la manutenzione; la costruzione di cunicoli montani verticali ed obliqui è caratteristica delle cripte augusteae delle zone misenate e cumana.

Per superare i dislivelli esistenti nelle valli l’opera correva su ponti-canale, dei quali il più esteso risultava quello presso Pomigliano d’Arco, a Palma nella piana Campana, lungo oltre 3500 metri con archi alti sino a 4-5 metri.

L’acquedotto augusteo di Serino, inoltre, alimentava numerose ville rurali e sul mare e molteplici gruppi termali, prima di giungere alle vasche terminali della “Piscina Mirabilis”, avente una capacità di 12.600 metri cubi; essa era al servizio del nuovo porto militare di Miseno.

Tavola Va

Probabilmente servita dallo stesso canale era anche alimentata, al termine della estesa opera idraulica, la grossa vasca della Dragonara avente un volume pari a circa la metà dell'altra. I volumi idropotabili di tale serbatoio erano probabilmente al servizio dell’abitato locale, sviluppatosi intorno al nuovo impianto militare, e degli addetti al porto: non è comunque certo che tale ulteriore serbatoio di accumulo fosse alimentato dall'acquedotto o piuttosto riempito anche da acque di pioggia.

Tavola V b

E' opportuno rammentare alcune delle numerose vasche di accumulo, veri e propri serbatoi idraulici di Pozzuoli, come le Piscine Cardito e Lusciano, le numerose vasche del Rione Terra e quelle a servizio delle molteplici ed estese ville marine o rurali: i serbatoi della Pausillipana, le Cento Camerelle, la Luculliana a Miseno, le ville di Cicerone o quelle di Baia e molte altre (ricorda la tavola III).

In merito alle numerose ed estese terme, note sono quelle presso Agnano in via Terracina; ma ancora più importante il maestoso complesso termale di Baia. La zona di Pozzuoli-Baia era, anche dotata di molteplici cisterne private ed a servizio di caserme, terme ed edifici pubblici nei quali giungeva probabilmente anche l’acqua da un ulteriore più antico acquedotto di non certa datazione: l’Acquedotto Campano, posizionato però ad un livello inferiore rispetto all’acquedotto augusteo.

Qui è necessario ricordare che i Romani usavano, nel caso di acque poste al di sotto del loro utilizzo, vari e notevoli impianti di sollevamento, mossi dall’energia al tempo più facile da reperire e meno costosa: il lavoro degli schiavi.

Tavola VI a

Notevole è l’invenzione della pompa di Ctesibio, studioso del medio Oriente trasferitosi a Roma. Tale macchina, in uso già dal I sec A.C., era un meccanismo idraulico aspirante-premente che permetteva di portare l’acqua a notevoli altezze, seppur sollevando volumi idrici non elevati; era infatti usata soprattutto nelle città per spegnere gli incendi.

Questo acquedotto campano di Pozzuoli, che il Beloch definisce, senza tentativi di ulteriore precisazione, d’età greco-romana, serviva probabilmente la città di “Dicearchia” (così chiamata dai Greci) già da prima che entrasse in funzione l’acquedotto augusteo, non potendo ipotizzarsi che in età repubblicana un porto già importante fosse sprovvisto con continuità di un congruo volume d’acqua. L’opera costituita da un canale di larghezza 70 cm per circa due metri di altezza, captava alcune sorgenti locali, posizionate nell’immediato retroterra, certo più copiose rispetto ad oggi, trasportando l’acqua lungo la via Campana, distaccandosene poi per scendere nella parte più bassa della città, nella piazza principale nella quale ha termine.

E’ interessante notare come le più capaci e significative vasche di accumulo, costituenti, il più delle volte, veri e propri serbatoi, fossero situate al termine del lungo canale augusteo. Ad avviso di chi scrive tale tipo di manufatto, tra l’altro costoso, si rendeva necessario per conservare sensibili scorte idriche per le navi e per le attività portuali, o anche per le ricche ville, soprattutto durante i probabili fuori servizio del canale dell’acquedotto, per gli interventi di ispezione o peggio per le riparazioni che dovevano essere frequenti nell’antichità, così come avviene per gli acquedotti moderni.

Ricordiamo che agli interventi di ispezione e di riparazione provvedevano degli specialisti (così come avviene oggi), che erano addetti a lavori esclusivi.

Riportiamo qui cosa dice nel libro “De aquaeductu Urbis Romae”, alla fine del primo secolo d.C., il console romano curator aquarum Sesto Giulio Frontino, preposto al controllo degli acquedotti romani dall’imperatore.

§ 116: Resta da considerare la tutela dei canali. Prima che inizi a parlarne è necessario illustrare brevemente la familia che è preposta a ciò. Due sono le familiae: pubblica l’una, di Cesare l’altra. Più antica è la pubblica che dicemmo lasciata da Agrippa ad Augusto e da questi resa pubblica: si compone di 240 uomini.

Di 460 uomini è la famiglia di Cesare, costituita da Claudio quando portò le aquae nell’Urbe.

§ 117: L’una e l’altra famiglia, tuttavia, sono divise in varie specie di funzioni: villici, castellarii, ispettori, silicarii, stuccatori ed altri operai.

Alcuni di questi è necessario che rimangano fuori città per quei lavori di lieve entità che, tuttavia, sembrano richiedere una pronta assistenza.

Gli uomini in città eseguiranno con sollecitudine ogni lavoro relativo alle stazioni dei castella e delle fontane, specialmente nei casi di emergenza, affinché da più quartieri si possa trasportare in quella in cui sovrasti la necessità, un supplemento di abbondanti acque.

Questo gran numero di uomini dell’una e dell’altra famiglia, solito per parzialità e negligenza degli addetti, ad essere impiegato in lavori privati, abbiamo stabilito di richiamarlo a disciplina ed alle pubbliche funzioni, dettando il giorno prima il lavoro da svolgere e facendo compilare in un diario anche ciò che è stato compiuto ogni giorno (gli odierni ordini di servizio n.d.a.).



§ 120: I lavori di riparazione derivano da queste cause: qualche parte può cadere in rovina per vetustà, o per negligenza dei proprietari, o per la violenza del maltempo, o per difetto dell’opera mal costruita, cosa che accade più sovente nei lavori recenti.

§ 121: In generale per vetustà o per violenza del maltempo soffrono quelle parti delle condutture sostenute da arcate, o che sono situate sulle pendici dei monti e quelle parti delle arcate che sono tracciate attraverso il fiume. Pertanto questi restauri vanno eseguiti con sollecita fretta.

Meno soggetti a lesioni sono i condotti sotterranei, non esposti né alle gelate né al calore.

Vi sono danni poi di tipo tale che si può intervenire senza interrompere il flusso o che non si possono riparare se non deviandolo, come per i lavori da eseguire nel canale medesimo.

§ 122: Questi lavori prendono origine da una duplice causa: o dall'accumulo di deposito calcareo, che indurendosi talvolta in una crosta, impedisce il flusso dell’acqua, o dal deterioramento dei rivestimenti interni, da cui derivano infiltrazioni che inevitabilmente danneggiano i fianchi dei condotti e i muri di sostegno. Anche gli stessi pilastri, costruiti in tufo, si deteriorano sotto un peso tanto grande.

La lettura dell’opera di Frontino testimonia l’alta civiltà tecnologica e di gestione del servizio acqua; di fatto potrebbe sembrare riferito ai nostri tempi.

E’ certo che questo tipo di organizzazione fosse estesa a tutte le opere, soprattutto idrauliche, dell’Impero, data la profonda e sociale cultura dell’acqua presso i Romani.

Una notazione particolare va dedicata alla pendenza nell’acquedotto augusteo di Serino. Ricordiamo che la pendenza di un canale può esprimersi come il rapporto tra il dislivello tra due punti e la loro distanza orizzontale; si misura generalmente in metri di quota persi per ogni chilometro di lunghezza di canale.

Dioptra.

Le sorgenti di Serino, e precisamente quelle superiori di Acquaro-Pelosi, captate dai Romani, sono situate a 330 metri circa sul livello del mare, la platea della Piscina Mirabilis, lontana da queste circa 100 chilometri, è situata sui 2 metri sul livello del mare (al tempo di Augusto probabilmente intorno ai 10 metri, per il noto fenomeno del bradisismo flegreo).

Da tali dati si può dedurre che la pendenza media dell’acquedotto augusteo era di poco superiore al tre per mille, ovvero che l’acqua trasportata perdesse tre metri per ogni chilometro percorso.

In realtà la pendenza variava tratto per tratto. Il già citato Abate, dopo gli studi sull’antica opera romana di Serino, divide il percorso in una serie di tratti a pendenza pressoché costante: dal primo tratto, che nasce dalle sorgenti, ove la pendenza è del 7,33 per mille, alla "caduta della Laura" ove in 1,484 chilometri si perdono 153,61 metri, al traforo sotto il monte Paterno (0,52 metri per chilometro) al ponte canale di Pomigliano (0,39 metri per chilometro), e così via sino all’ultimo tratto da lui studiato sino ai “Ponti Rossi” ingresso alla città di Napoli, ove la pendenza risulta dello 0.16 per mille, e la platea del canale è posizionata a 41,4 metri sul livello del mare. Dalle sorgenti Acquaro ai Ponti Rossi il canale, secondo Abate è lungo circa 75 chilometri.

Nei moderni canali a pelo libero, costruiti per il trasporto dell’acqua potabile, la pendenza, certo di valore costante durante il tracciato, varia mediamente tra i 0,20 ed i 0,60 metri per chilometro. Tale risultato è certo dovuto alle diversità tecnologiche relative ai periodi considerati.

Al tempo dei Romani erano in uso, per il controllo del piano orizzontale strumenti come il “chorobates” e la “libra aquaria”, per la verticalità esisteva l’archipendolo o “dioptra”, e la groma aiutava validamente per le triangolazioni e la divisione agrimensoria. Diversamente dagli strumenti moderni quali il livello (l‘errore di quota, per una livellazione di media precisione, non deve superare 1-2 millimetri per chilometro), il tacheometro ed il teodolite, per gli angoli e le distanze.

E’ stupefacente come i Romani, con strumenti tanto rudimentali, siano riusciti a realizzare opere tanto avanzate. Di questi strumenti e di tanto altro parla, con dovizia, l’architetto del I secolo A.C. Marco Vitruvio Pollione nel suo libro sulle costruzioni: De Architectura.

La difficoltà di realizzare nei canali una pendenza costante, almeno per lunghi tratti, crea problemi di non piccola entità derivanti o dalla eccessiva velocità delle acque o dalla loro lentezza nello scorrere nello speco. Anche le brusche variazioni di regime idraulico determinano disconnessione della vena liquida con conseguente creazione di rigurgiti, schiume e risalto del pelo dell’acqua (salto del Bidoni). Da ciò ne consegue il deposito del materiale a volte trasportato, l’erosione delle murature nei tratti ove la velocità si presenta troppo elevata e soprattutto deposito a causa dell’ossigenazione dei sali di calcio lungo le pareti o sul fondo, sali che costituiscono quelle incrostazioni stratificate cui fa cenno Frontino nella sua opera. Tali incrostazioni diffuse nei canali romani, di misura tale, che a volte ne viene impedito totalmente il passaggio della stessa acqua, come visto, richiedevano periodici interventi di pulizia con chiusura totale del flusso idrico. Tra l’altro non è certo facile eliminare tali incrostazioni, senza danneggiare altresì l’opera muraria.

Negli acquedotti attuali, realizzati con pendenze pressoché costanti, il fenomeno è di fatto inesistente, tranne in alcuni punti ove esiste una aerazione più intensa: punti di sbocco o salti repentini di quota. Il Canale principale di Serino, realizzato nel 1885, e con pendenza costante di 0,5 metri al chilometro, nei suoi più di 115 anni di funzionamento non presenta lungo le pareti la minima traccia di depositi calcarei.

Interessante notazione può farsi sull’acquedotto romano per Beneventum, anch’esso alimentato dalle sorgenti di Serino, più precisamente dal gruppo sorgentizio più basso: Urciuoli, con portate maggiori, variabili tra i mille e duemila litri al secondo.

Tale opera idraulica, studiata tra il XVIII e XIX secolo, da tal Francesco Criscitelli, e databile tra la fine del I secolo d.C. e la metà del secondo, presenta svariate singolarità tecniche che vale la pena di menzionare.

Il canale dell’acquedotto, probabilmente lungo tra i 34 ed i 36 chilometri, nasceva dalla polla principale del gruppo sorgentizio. Il caput aquae era posto a circa 324 metri sul livello del mare; l’arrivo, in una cisterna dopo l’arco di Tito in Benevento, era situato ad una quota non superiore ai 150 metri. Da tali dati si ricava la pendenza media del manufatto di circa 5 metri per chilometro.

In effetti i tratti dell’opera che si succedevano lungo il percorso, che si sviluppava lungo il letto del fiume Sabato, attraversandolo anche con dei ponti-canale ad arcata unica, presentavano valori di pendenza diversi, anche notevoli. Il tratto iniziale aveva una pendenza di 1 metro al chilometro; presso il villaggio di Prata tale valore saliva ad oltre 7 metri al chilometro, da Altavilla Irpina a Ceppaloni risultava di oltre 13 metri al chilometro, infine il valore succitato, nel territorio beneventano, era di 2 metri al chilometro.

Orbene lo spessore delle incrostazioni, rilevato nei vari tratti visibili del canale, è strettamente collegato con la pendenza locale dello stesso, e quindi alla velocità ed alla areazione dell’acqua trasportata.

Nel primo tratto succitato presso il “caput aquae”, le incrostazioni di calcare sono state misurate in 3 cm. di spessore; nel tratto presso la cittadina di Altavilla, furono valutate di spessore circa 25 cm. a strati (come se durante il funzionamento dell’acquedotto vi fossero stati dei periodi nel quale il canale risultava asciutto). Il Criscitelli, nel terzo tratto del canale, tra i villaggi di Altavilla e Ceppaloni, ove maggiore era la pendenza, misurò incrostazioni in platea di spessore sino a 50 cm. Con valori ancora maggiori sui piedritti, (Tav. IX a), nell’ultimo tratto del tracciato verso Benevento, ove come visto la pendenza diminuisce, lo spessore delle incrostazioni risulta minore, tranne alcuni tratti particolari, presso l’arco di Costantino, dove erano prevedibili variazioni di regime idrico.

Sezioni ed incrostazioni del canale da Urciuoli a Benevento

Nell’acquedotto di Benevento fu riscontrata, altresì, un intervento tecnico di tipo particolare, quasi sicuramente eseguito a causa sia della instabilità e pericolosità dei terreni attraversati dal manufatto, che dall’esistenza di polle d’acqua non buona al di sotto della platea del canale.

Il costruttore, o molto probabilmente il curatore di un restauro posteriore, ha rivestito la platea del canale con lastre di piombo ricoperte poi di laterizio, in modo da isolare le acque da eventuali infiltrazioni idriche non gradite e ancor più per vanificare piccoli movimenti del terreno instabile che avrebbero danneggiato il canale stesso.

I piedritti dell’opera sono, generalmente eseguiti in calcestruzzo, nel nucleo, con frammenti in ciottoli calcarei e con paramento in tufello e laterizi spessi 3,5 cm., alternati in filari di 10.

La sezione dell’opera di presa, esistente alle sorgenti Urciuoli, si presenta larga 70 cm., alta 1,70 m., coperta con tegole in laterizio posate alla cappuccina.

Le pareti dei piedritti sono rivestite da un doppio stato impermeabile, il primo spesso 4,5 cm. in cocciopesto, il secondo di 0,5 cm. in cocciopesto finemente tritato e calce; al di sopra è depositata un’incrostazione calcarea di 3,5 cm.

L’ultimo degli acquedotti di Serino è, come si è detto inizialmente, quello inaugurato nel 1885. Costruito, in soli quattro anni, per trasferire a Napoli le portate idropotabili necessarie ad alimentare i cinquecentomila abitanti della popolosa città partenopea, era, per l’epoca nella quale veniva realizzato, un’opera dai grandi contenuti tecnici, progettata con tale lungimiranza che ha permesso di alimentare da sola sino al 1945 Napoli e numerosissimi comuni vicini. Vero è che nel 1936 furono captate ed inviate, mediante i medesimi impianti, le sorgenti alte del gruppo Acquaro-Pelosi; con tale immissione il canale ancora oggi trasporta, nei periodi di morbida delle sorgenti, sino a 2350 litri al secondo.

I lavori dell’acquedotto vennero divisi in cinque parti distinte che ne costituirono l’insieme:

1 - L’allacciamento delle sorgive.

2 - La conduttura libera in muratura a partire dalle sorgenti e sino ai castelli di presa dei grandi sifoni sulla collina di Cancello, eccezion fatta di due sifoni (rovesci) intermedi per gli attraversamenti dei valloni profondi di Tronti e Gruidi.

3 - Le condotte forzate, o grandi sifoni a partire dalla Collina di Cancello sino ai serbatoi sulle colline di Napoli.

4 - I due serbatoi cittadini.

5 - La distribuzione in città.

I lavori di allacciamento che furono compiuti nelle sorgenti Urciuoli diedero dei risultati eccellenti, superiori ad ogni previsione, giacché la portata che da esse si ricavò fu superiore ai 2 metri cubi al secondo.

Il sistema di allacciamento, secondo il quale si procedette, è quello del drenaggio sotterraneo: diviso il territorio delle polle in tre zone, a seconda della posizione ed importanza delle varie sorgive, furono costruiti tre canali coperti, destinati a raccoglierne e convogliarne le acque, ed al principale tra questi, furono attribuite dimensioni maggiori che agli altri due.

La profondità alla quale furono collegati questi collettori, varia secondo la configurazione del soprassuolo; però in generale si trovano superiori alla vena acquifera, di maniera che dove essi giacciono incassati nel tufo non venne fatta alcuna platea; attraverso tale apertura risalivano le acque sorgive.

Le polle immediatamente laterali al percorso del collettore versano in esse le loro acque per apposite luci lasciate nel piedritto corrispondente, di apertura proporzionata alla importanza della medesima sorgiva.

All’esterno e lateralmente ai piedritti lo scavo si aprì per una certa larghezza in più e lo si riempì sino al livello della cappa di ciottoli calcarei puliti e lavati: di tal modo si avvolse il collettore in una incamiciatura permeabilissima, attraverso la quale anche le sorgive elevate possono trovare facile e comoda via. (tavola IX c).

Tavola IX c

Su tutto si distesero due strati di pura argilla fortemente battuta e cementata tra loro da un frapposto velo di calce idraulica in polvere e al di sopra un vagliato riempimento in terra, il tutto a protezione delle sorgive dalle acque superficiali.

La raccolta di queste acque avviene in un fabbricato di pianta quadrata diviso in tre piani dall’ultimo del quale parte il canale dell’acquedotto. (Tav. X). Nella tavola è anche indicato il punto di partenza dell’antico acquedotto romano per Beneventum (c). Inoltre vi è indicata la pianta della sorgenti Urciuoli prima della loro captazione e disegnate le tracce dei collettori drenanti.

Il nuovo canale di Serino, lungo metri 59.551, si svolge attraverso un percorso parte a mezza costa, parte in galleria naturale all’interno dei monti, parte in pianura secondo la configurazione naturale dei declivi attraversati e, ove ciò non sia possibile, esso si svolge su ponti canali anche di notevole lunghezza (tav IX b).

Il canale in muratura, a blocchi di pietra varia, ed a pelo libero, è costruito con sezioni molto diverse tra di loro, variabili a seconda della spinta statica trasmessagli dai terreni attraversati.

I ponti canali sono oltre 20 con uno sviluppo di oltre 1800 m. (tavola XI), il più lungo dei quali passa sopra Rio Noci con 31 arcate e lunghi quasi 500 metri; da sottolineare la somiglianza di tali manufatti con quelli costruiti dai Romani (tavola XI a e XI b).

Tavola XI a - Ponte-canale Rio Vergine 1885

I profondi e scoscesi valloni dei Tronti e dei Gruidi sotto Altavilla Irpina, furono attraversati dall’acquedotto con due batterie di tubazioni metalliche (sifoni rovesci in ghisa).

Il problema di fornire giornalmente la città di Napoli dalla collina di Cancello, punto nel quale arriva l’acquedotto principale in condotta libera, ora descritto, fu efficacemente risolto da una batteria di condotte forzata metallica in ghisa, composta da tre grandi sifoni rovesci, uno con diametro interno di 700 mm., destinato all’alimentazione del serbatoio alto e gli altri due, col diametro interno di 800 mm., destinati per il servizio basso della città.

L’origine dei sifoni aveva luogo in due vasche o castelli di presa posti a differente altezza sul versante del colle di Cancello verso Napoli.

Dai succitati castelli di presa, costruiti con solida muratura fino ai serbatoi cittadini si sviluppa, iniziando dai piedi della collina, parte della piana campana, nella quale sono interrate le grosse condotte di adduzione.

Queste dopo un percorso di oltre 22 km forniscono i due serbatoi cittadini dell’epoca delle portate destinate alle due reti ad essi connessi.

Il serbatoio più basso posto in vicinanza della reggia di Capodimonte, in sottosuolo, ha un volume di oltre 82.000 metri cubi, per l’epoca veramente considerevoli; esso è costituito da cinque vasche scavate nel tufo giallo napoletano alte 10,80 m. larghe 9,25 m. e nelle quali lo sfioro dell’acqua si trova a 8 m. rispetto alla platea; la quota altimetrica rispetto al mare è di m. 92,50 (tav. XII).

Il secondo serbatoio più alto dello Scudillo, posto alla quota di metri 183 sul mare, aveva una capacità complessiva di 20.000 metri cubi. Tale serbatoio alimentava tutte le utenze medio alte della Napoli di fine 800 sino a Torre Ranieri. Nel tempo la capacità di tale serbatoio è stata aumentata sino a 145.000 metri cubi.

Dalla descrizione, in vero sommaria e parziale che sin qui è stata fatta, risaltano comunque grosse analogie costruttive dell’opera moderna rispetto a quelle dei più antichi acquedotti romani di Serino e di acquedotti analoghi della romanità, sia per le opere per il modo con il quale era realizzata la distribuzione dell’acqua potabile, che per la captazione attenta delle sorgive.

Anche riguardo la costruzione del canale a pelo libero, condotta in muratura che trasporta l’acqua dalle sorgenti verso gli “utenti”, dei ponti per l’attraversamento delle valli, o dei sifoni rovesciati, delle gallerie per trapassare le montagne, si può ben affermare che essa presenta tecniche costruttive praticamente uguali nei due periodi, pur così lontani tra di loro.

Tavola XIII

Si confronti nella tavola XIII gli strumenti simili e le modalità costruttive del 1885 e romane per il sollevamento dei pesi e nella realizzazione degli archi dei ponti.

Le capacità tecniche dei romani sono testimoniate anche dal fatto che le città anche non troppo grandi, come Pompei ed altre, erano alimentate con condotte in pressione generalmente in piombo; esse erano costruite piegando le spesse lastre del metallo e saldando i lembi tra di loro; tale rete idrica, che nasceva da una vasca di ripartizione (in Pompei era ubicata a Porta Vesuvio), ove necessario, veniva servita da vasche di carico di secondo ordine; poste ai crocevia della città, alimentanti anche fontane pubbliche. Gli impianti di distribuzione erano dotati di diramazioni di utenza.

La città di Pompei, come si può rilevare dalla figura, ci dà la possibilità di verificare con certezza lo stato della alimentazione idrica nelle città romane nel periodo dell’Impero; questa certezza deriva dal ritrovamento di numerosi reperti scoperti a Roma, in Francia in Ispagna, Africa etc., che dimostrano come all’epoca fosse diffuso un sistema di trasporto e distribuzione dell’acqua potabile tecnicamente molto avanzato ed affidabile.

I canali a pelo libero, che alimentavano i serbatoi erano adeguati ai terreni attraversati e ai dislivelli incontrati; i sistemi di captazione adottati permettevano una salvaguardia delle acque igienica e sicura; infine lo stesso sistema di gestione ed esercizio di tutta l’opera acquedottistica prevedeva, con il lavoro delle familiae una organizzazione agile e moderna che permetteva interventi pronti. In modo simile a quello odierno.

Notevole ed ammirevole era la capacità dei Romani di gestire e controllare il territorio; si noti a tal uopo la ricostruzione fatta della zona puteolana al tempo dell’inizio dell’Impero (tavola XV).

Tale forte ammirazione per l’opera romana sussiste ancor più se si considera la diversa capacità tecnologica odierna di produrre e soprattutto l’attuale esistenza di materiali tecnologicamente più avanzati come l’acciaio o la possibilità di usufruire dell’energia elettrica nell’epoca antica surrogata da capaci schiavi.

Possiamo quindi con certezza affermare che le capacità di alimentare le città al tempo dei romani erano notevolmente all’avanguardia non solo per le profonde e sentite idee sociali, ma soprattutto per la possibilità all’epoca di far convergere ed operare in Italia le maggiori personalità tecniche e realizzative esistenti in tutto l’impero. Anche la legislazione romana sugli acquedotti prevedeva la salvaguardia del servizio idrico e del bene pubblico acqua considerato una conquista sociale per ogni tipo di cittadino ed un bene da salvaguardare.

Tavola XV
a-lucullianum b-pausilipana c-ville e porto di nisida d-terme agnano e-villa cesare
f-porto di pozzuoli g-portus julius h-lacus baiae i-città di cumae
n-luogo ove il 29 settembre 1538 sorse monte nuovo.

In conclusione il concetto della “res publica” era ben radicato nella società romana; non ci deve quindi stupire, e possiamo condividere quanto afferma Sesto Giulio Frontino, nominato dall’imperatore Nerva curator aquarum, per la riorganizzazione dell’amministrazione delle acque nel 97 d.C. Tale incarico di solito veniva affidato agli uomini più capaci e ragguardevoli della città. Frontino nel suo trattato “De aquaeductu Urbis Romae” afferma:

ogni incarico dell’imperatore richiede particolare attenzione ed io stesso sono stimolato da una naturale sollecitudine e da una operosa lealtà, non solo a svolgere ma ad amare l’incarico commessomi. Ora che Nerva Augusto, imperatore non so se più solerte o più amante della cosa pubblica, mi ha affidato l’amministrazione delle acque per l’uso, l’igiene ed anche la sicurezza della città, incarico sempre ricoperto dagli uomini più illustri della città, ritengo di primaria importanza e, soprattutto, indispensabile essere bene a conoscenza del compito intrapreso, così come ho sempre fatto nei precedenti incarichi”.

References

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